Un poeta ha messo le mani sulla mia città

Oggi, con un giorno di anticipo sulle celebrazioni della giornata mondiale della poesia, festeggiamo l’uscita di un libro di poesie di Luca Bonelli, che finalmente ha dato alle stampe un’antologia del suo quasi trentennale lavoro di scrittura. Si intitola Alla guerra (Poesie) ed è pubblicato da Pensa Multimedia di Lecce. Io ho scritto la postfazione al volume (titolo: Le mani sulla città), che riproduco di seguito.

Cominciamo da un luogo, anzi da un nome: Kansas City. Così lo scrittore Carlo Cassola, agli albori dell’età repubblicana, impressionato dalla battuta di un soldato americano, aveva chiamato Grosseto, capoluogo di una delle province più disabitate e malconce della penisola italiana. Quando il fuggiasco Luciano Bianciardi, emigrato a Milano dopo aver esercitato, a Grosseto, il mestiere di direttore della locale biblioteca e di animatore culturale della piccola città, si mise a scrivere il suo libro intitolato Il lavoro culturale, pubblicato da Feltrinelli nel 1957, non ebbe esitazioni: ormai Grosseto era diventata Kansas City, «la città tutta periferia, aperta, aperta ai venti ed ai forestieri, fatta di gente di tutti i paesi». Una città mitica, fondata non dagli etruschi, né dai longobardi, ma dagli americani che l’avevano, d’un balzo, proiettata nella modernità:

… Kansas City era la nostra realtà, altro che storie! Le origini della città? L’anno di fondazione? Ma era il 1944, né più né meno. Prima di allora non esisteva, era stata fondata dagli americani, che, giungendo fra noi, avevano spianato un campo per farvi atterrare gli aerei, aperto rivendite di coca-cola, spacci di generi alimentari, dancings, depositi di materiale, creando all’improvviso un centro di traffici nuovo. 
Da ogni dove, allora, erano accorse folle di gente a quella nuovissima mecca: mercanti neri dal meridione, carichi di valigie d’olio, affaristi del nord, decisi a fondare nuove industrie in una zona così di sicuro sviluppo, meretrici, lustrascarpe, girovaghi, cantanti di storie, venditori ambulanti di pettinini e di lacci di scarpe, indovini della fortuna col pappagallo e la fisarmonica, e poi, via via, tutti gli altri: gli impiegati del catasto, i questurini, gli agenti di assicurazioni, gli artigiani, le maestre di scuola e i preti…

Grosseto-Kansas City in quel lontano 1957, nel bel mezzo del boom economico italiano, era il simbolo di un paese pieno di speranza, abitato da un popolo meticcio e operoso, che sembra immune dai vizi che affliggono l’Italia del nascente neocapitalismo. 

Cinque anni dopo, nel 1962, dopo aver trascorso migliaia e migliaia di ore a tradurre libri e aver sperimentato condizioni di “lavoro culturale” umanamente insostenibili, Bianciardi pubblicò La vita agra, il suo romanzo più celebre. In questo passo, tratto dall’ottavo capitolo, il narratore mette in scena i suoi sogni e racconta la triste scomparsa del mito di Kansas City: 

Certe notti, quando non riesco a prendere sonno, mi sfilano in processione dinanzi agli occhi Salvatore Giuliano e le donne artificialmente feconde, il colonnello Maverick e il generale Sirtori, Ciascuno recando una sua parola sorda e irridente, Virginia Oldoini, Carl Solomon, Gad Dov Ygal, la testa mozza del povero Languille, Beverly ragazza di vita, Nikita Krusciov… Sidi-bel-Abbès, l’Ondulata Otto, Jack Andrus, l’Astronomo Reale, i Cappellani, le Corone e i Giovani Turchi armati di pistole zip, mille idee per aumentare le vendite e Leonardo da  Vinci detective ad Amboise.
Ciascuno di costoro m’ha portato via un pezzo di fegato, e tutti insieme mi hanno dannato l’anima, mi hanno stravolto persino l’infanzia. Quando non riesco a prendere sonno, penso alle mie vacanze, bambino, su a Steetrock, o nei prati intorno a Plaincastle, a St. Flower, ad Archback, a Chestnutplain. Ripenso ai lunghi viaggi sulle strade verso Download, Hazely, Copperhill, Meadows, Bouldershill, Gaspings, e poi il ritorno, dalla parte del camposanto di Scrub, nella grande pianura open to the winds and to the strangers. Then from everywhere crowds had rushed to this newly-found Mecca: black dealers from the South, carryng suitcases filled with oil, speculators from the Nords…

A forza di tradurre, immergendosi nei mondi possibili di decine di romanzi e racconti, ore e ore al giorno per sei giorni a settimana, il narratore perde il filo della propria esistenza, fino a confondere i propri ricordi con quelli dei personaggi dei libri tradotti, che gli compaiono in sogno e gli infestano la memoria. E i propri ricordi d’infanzia, a loro volta, vengono tradotti in inglese, come indicano i nomi dei paesi dei suoi luoghi d’origine, tra Grosseto, le Colline Metallifere e il Monte Amiata, dove effettivamente Bianciardi trascorreva le vacanze estive: Roccastrada è diventata Streetrock, Castel del Piano Plaincastle, Santa Fiora St. Flower, Arcidosso Archback e Piancastagnaio Chestnutplain. Il secondo gruppo di nomi si riferisce ai paesi e ai villaggi minerari delle Colline Metallifere, che possono essere identificati con Giuncarico, Niccioleta, Prata, Montieri, Monte Massi e Boccheggiano, dove Bianciardi andava a portare i libri con il Bibliobus della Biblioteca di Grosseto. Il viaggio si concludeva, passando dalla strada del cimitero di Sterpeto, proprio a Grosseto-Kansas City, la città «open to the winds and to the strangers». Nei sogni del personaggio narratore quella visione di gioventù, carica di ottimismo, viene trasfigurata in una lingua straniera e, quindi, allontanata in un tempo e uno spazio ormai irraggiungibili, che gli sono stati espropriati e adesso non gli appartengono più. 

Nel 1964, ormai diventato scrittore di successo, Bianciardi scrisse infine una postfazione alla seconda edizione di Il lavoro culturale. Il testo, intitolato Ritorno a Kansas City, testimonia la definitiva caduta delle illusioni del dopoguerra:

… Kansas City si è fermata, e pensa ormai quasi a “valorizzare” la costa; spera negli svizzeri, negli svedesi, negli attori del cinema, nelle mogli dei presidenti.

È la Grosseto ormai definitivamente “montecatinizzata” a colpi di giardinetti, di aiuole, di vialetti e di fontanine, perché «Montecatini Terme è il modello di tutte le “Pro Loco” d’Italia», scriveva Carlo Cassola già nel 1953, e perché è così che impone la mentalità dei localisti, cultori dell’ordine e del decoro. Una città «tremendamente seria» tuttavia, si legge ancora in quella postfazione, da cui Bianciardi era fuggito nottetempo e senza chiedere il permesso. La città a cui Bianciardi lasciava in eredità un toponimo di successo – usato nei decenni successivi da istituzioni pubbliche e private per dare il nome a iniziative culturali e associazioni, – e una serie di luoghi comuni – le quattro strade, la periferia in espansione, i villaggi minerari, la pianura bonificata – che hanno sostanziato il discorso pubblico della e sulla piccola città degli ultimi cinquant’anni, trascorsi in bilico tra nostalgia delle origini e autocompiacimento. 

Ci rimane, oggi, di quest’esperienza letteraria, l’esempio di uno scrittore che, mettendo in discussione in confine tra finzionale e non finzionale, tra invenzione e testimonianza, ha dimostrato come sia possibile, se non necessario, ricorrere alle parole per dare una forma e un senso ai luoghi, rendendoli abitabili. 

È un’esperienza compiuta con ben altra consapevolezza – e con strumenti di ricerca più raffinati – dalla storica Vanessa Roghi nel suo Piccola città. Una storia comune di eroina (Laterza, 2018), e prima ancora dal poeta Luca Bonelli, che a differenza di Bianciardi e Roghi non ha scritto – né ha smesso mai di farlo – da un più o meno ideale esilio, ma direttamente ed esclusivamente dalle viscere di Kansas City, la città in cui è nato e ha vissuto dal 1963. Grosseto, teatro delle avventure dell’io lirico di questo libro, è la zona di guerra da cui l’inviato Bonelli invia da decenni i suoi puntuali reportage, che rendono conto di ogni spostamento (incursioni alcoliche, poetiche o politiche in territori vicini, rigorosamente all’interno dei confini nazionali), di ogni visita ricevuta (la più proficua, quella di Remo Remotti del 2010), e poi di amori, incontri, vite incrociate per strada, sui libri o in tv, con una spiccata preferenza per i canali sportivi e per gli incontri di pugilato (che insieme al baseball e all’hockey su pista ha contribuito a plasmare l’immaginario della città).

E se Bianciardi ci ha messo a disposizione le parole che servono a guardare la città (quella città) da lontano, con un misto di rimpianto e di sollievo, con la gioia di chi ricorda un’epoca eroica, quando ancora si poteva inventare, con le parole, uno spazio abitabile,  ma poi da quello spazio è fuggito nottetempo, Bonelli ci ha sempre offerto, generosamente, l’opportunità di restare, rimandendogli accanto a osservare senza rimpianti e senza nostalgie quell’agglomerato di case e persone in continua e inesorabile trasformazione, che da oltre un secolo «si allarga come una metastasi» (Grosseto addio).

Bonelli ha iniziato a pubblicare le sue opere a metà degli anni Novanta, quando per la prima volta ha aperto il suo quadernone – un quaderno ad anelli formato A4 nel quale raccoglieva i suoi manoscritti, – e ha iniziato a leggere in pubblico. E in pubblico, da quel momento in avanti, ha continuato a scrivere, a leggere, a rileggere e a riscrivere, spesso davanti alle stesse persone, inesorabilmente, consapevole della responsabilità che gli era stata affidata da una piccola porzione – un grumo di cellule appena – di quella metastasi dai troppi nomi. Come un musicista jazz, Bonelli è arrivato fin dove lo hanno portato le orecchie che sono state capaci di ascoltarlo, e che insieme a lui – l’uomo che ha fatto dell’ascolto il suo principale ferro del mestiere – hanno costruito un mondo poetico popolare, un universo narrativo la cui regola fondamentale è il riciclo postmoderno di personaggi reali e di finzione, di situazioni tipiche e di luoghi comuni, trascorrendo senza soluzione di continuità dal falò sulla spiaggia all’ennesima visione dello stesso incontro di pugilato, dall’ascolto dei CSI alla sosta al bar lungo l’Aurelia, dalla gita in montagna coi genitori alla manifestazione del Global Forum a Firenze.

I suoi primi libri, stampati a Lecce dal Sud Write System nella seconda metà degli anni Novanta, sono Ritratti – riprodotto con variazioni nella seconda sezione di questo volume – e I Manierini, una sequenza di microsceneggiature perfette per le performance bonelliane, durante le quali le voci dei due personaggi – quella del protagonista, il cacciatore di taglie Manierino Kill, e del suo fedele autista Roy Keynes, – sono interpretate con la maestria di un grande attore. A questo primo riconoscimento, che fa da innesco a un proficuo ciclo di lettere pubbliche per l’Italia, segue la pubblicazione di F.A.O (foramusementonli), ospitato nella collana «Azione poetica» dell’editore ligure Zona. I crimini compiuti dalla polizia durante il G8 di Genova del 2001 sono di là da venire, ed è ancora nell’aria lo spirito neoavanguardista del Gruppo 93 e del collettivo di pronto intervento poetico «Altri luoghi». Bonelli, che trova il suo posto tra Elisa Biagini e Mariano Bàino, Vitaniello Bonito e Florinda Fusco, assume il ruolo di poeta pop, «della specie», scrivevo nella postfazione, «dei poeti civili», capace di mettere a frutto le risorse dell’immaginario postmoderno per realizzare poesie e prose socievoli, divertenti e mai consolatorie. Come ebbe a scrivere Silverio Novelli su «Avvenimenti», «Il killer di Bonelli è maniera per distillazione e prosciugamento. Virtuosismo linguistico sull’effetto fotocopia. Moralmente, dissuasione dal confidare nelle qualità oppiacee delle letterature non manieristiche ma manierate».

L’inclusione nel catalogo Cinematografie di Gianni Cacciarini (1999) e poi nell’antologia Nodo sottile (2000), accanto, tra gli altri, a Roberto Balò, Elisa Biagini, Massimiliano Chiamenti e Marco Simonelli, colloca Bonelli tra i poeti toscani più interessanti degli anni Zero, e conferisce una rinnovata autorevolezza al suo lavoro di scrittore e di attore-lettore, quest’ultimo perfezionato grazie al lungo tirocinio con il Teatro Studio di Grosseto e alla collaborazione con il performer Fabio Galassi, che culmina nello spettacolo Suoni per terra e per mare (poesia in scena), un reading poetico-musicale che integra l’ascolto di canzoni della tradizione rock e letture poetiche originali, messo in scena per la prima volta al festival di teatro di strada Mercantia di Certaldo (1999).

È in questa fase che, accanto all’autore, prende forma il personaggio-poeta Bonelli, il «rinoceronte illetterato, scrittore con le movenze d’un sumoka (e la sensibilità)» (Portrait), che è stato «campione del mondo dei pesi massimi» (169) e che di lì a poco, dopo la macelleria messicana della Diaz, e per i due decenni successivi, sarebbe diventato il poeta-reporter di guerra della «Grosseto militare», della «Grosseto americana», della «Grosseto grassa, meschina, bottegaia», da cui ha continuato a inviare i suoi dispacci e i suoi fondamentali vademecum. Si legge in Guerra:

Comportarsi come se tutto fosse conosciuto
come se tutto fosse già stato fatto
come se fosse già provato
tutto già déjà vu
Nulla sorprenda mai
Comportarsi come quello che lo sa prima
Come in tempo di guerra pensare a ballare,
meglio un bel film d’amore che leggere poesie
Non perdere tempo con queste scemenze che il tempo è denaro, dice
pensate piuttosto ad arraffare, ad accumulare.

Dopo aver preso definitivo congedo da GrossetoKansas City, il cui mito viene definitivamente infranto nel 2010, in seguito a un fatale incontro con Remo Remotti, l’autore della straordinaria Mamma Roma addio («E me ne andavo da quella Roma addormentata / Da quella Roma puttanona, borghese, fascistoide / Quella Roma del, “Volemose bene e annamo avanti”»), Bonelli sembra essere rimasto il solo essere vivente in una città popolata da mostri, novello Robert Neville, il protagonista di I Am a Legend di Richard Matheson. Mentre ogni progetto culturale veniva più o meno lentamente obliterato e la città, definitivamente ossessionata dal decoro, diventava il simulacro di sé stessa, Bonelli ha continuato e continua ancora a dare un nome a quei luoghi e ai loro abitanti, di anno in anno, inesorabilmente, costringendoli (costringendoci) a guardarsi nello specchio dei suoi occhi lucidi e sorridenti.

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