16 agosto 1916, Giuseppe Ungaretti scrive I fiumi

Una delle poesie migliori di questi ultimi cento anni, una delle mie preferite tra quelle scritte in lingua italiana.
Inizia così:

Mi tengo a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna

Oggi possiamo riascoltarla dalla voce di Giuseppe Ungaretti, o rileggerla a schermo (scarica qui Ungaretti_I fiumi, meglio leggerla su un libro, comunque, a mio avviso). E poi, chi ne abbia voglia, può confrontarsi con un mio esercizio di lettura.

La linea e il cerchio
Si inizia il racconto con il tempo presente: probabilmente è sera, oppure notte, e il poeta osserva le nuvole che passano sulla luna (vv. 1-8). Da quella situazione, in quel preciso momento, egli racconta il recente passato: al mattino si è disteso nel letto dell’Isonzo, ha camminato nell’acqua, poi si è seduto accanto ai suoi vestiti e si è asciugato al sole (vv. 9-26). A questo punto, con un notevole salto concettuale e narrativo, comincia a ripassare le epoche della sua vita, rivisitate e compitate attraverso il ricordo dei fiumi che hanno in qualche modo plasmato la sua esistenza: l’Isonzo, la Serchio, il Nilo, la Senna (vv. 27-62). Attraverso il bagno nell’Isonzo, in un momento di ritrovata armonia e quindi di «rara felicità» (vv. 39-40), il soggetto narrante riesce a vedere contemporaneamente l’intera sua vita che prende forma, rivela i suoi punti cardinali e quindi, con estrema chiarezza e straordinaria evidenza, si racconta. Il momento dell’immersione nell’acqua e poi nella luce calda del sole sono rivissuti al presente, quasi fuori dal tempo. E dal quel presente, nelle lasse successive il poeta ci mostra il suo passato, dischiusosi per un istante alla comprensione. Nell’ultima lassa si torna alla notte del 16 agosto 1916, nella dolina. Un’ulteriore e finale rivelazione fa apparire la vita come una «corolla di tenebre», metafora equivoca, non perfettamente decifrabile, che sembra volutamente esaltare la qualità analogica della lingua poetica, capace di inventare improvvisamente accostamenti inediti. È come se, dopo aver speso gran parte della poesia a raccontare esattamente le fasi e i significati della propria vita, Ungaretti avesse voluto lasciare il lettore con una sensazione di indefinito, di indeciso tra la qualità positiva del fiore (la corolla) e quella ad un tempo negativa e positiva delle tenebre (spaventose e misteriose), tra la disposizione circolare e rassicurante dei petali e il colore scuro e inesplorato della notte.
Quello che è certo è che due forme si sovrappongono e convivono in questa poesia, la linea retta lungo cui si dispongono le tappe del cammino storico dell’uomo e dei suoi luoghi, che richiama in qualche modo la linea sinuosa dei fiumi (i quali hanno sempre una direzione, un senso di marcia) e la lunga sequenza dei 69 versicoli sulla pagina bianca, e la forma circolare della dolina, del circo, della corolla di tenebre, analoga al movimento circolare del racconto, che si muove dal presente verso il passato, per chiudere ancora sul presente.
Dopo aver viaggiato con la memoria e l’immaginazione attraverso le fasi della sua vita, il poeta si ritrova al punto di partenza, ci mostra la sua nostalgia per il passato che non può ripetersi e ci offre un’immagine di ciò che egli vede da quell’albero in mezzo alla dolina, come fosse in mezzo a un catino: il cerchio delle tenebre.

La forma del racconto
È la poesia più lunga dell’Allegria: 69 versi articolati in 15 lasse fortemente scandite, ciascuna costituita da un periodo in sé concluso. Il primo verso è l’unico endecasillabo, mentre gli altri sono tutti di misura inferiore. La ricorrenza dei verbi al participio passato arricchisce il testo di semplicissime rime grammaticali in –ato (mutilato, abbandonato, riposato, andato ecc.). Solo nell’ultima lassa, in una sede particolarmente evidente e apparentemente con lo scopo di preparare il lettore al finale, fa la sua comparsa la rima traspare – pare.
Tutta la poesia sembra reggersi su pochi e fondamentali verbi, che contribuiscono a dare un effetto di essenzialità e semplicità al testo. Se estrapoliamo la sequenza dei verbi al passato prossimo, quelli che più propriamente hanno la funzione di raccontare, notiamo come essi mantengano intatto il loro significato. I verbi potrebbero da soli costituire una narrazione di senso compiuto:
Mi sono disteso – ho riposato – me ne sono andato – mi sono accoccolato – mi sono chinato – mi sono riconosciuto – ho ripassato – mi sono rimescolato – mi sono conosciuto

Raccontare, riconoscersi
È un racconto semplice, immediato ed essenziale come tutta la poesia dell’Allegria. È il racconto di un poeta che d’improvviso ha trovato il bandolo della matassa, ha saputo scegliere i soli momenti e fatti salienti e li ha sintetizzati, offrendoli alla comprensione degli altri. Ci troviamo di fronte ad un uomo che sfoglia l’album delle proprie fotografie e ce le illustra segnandole col dito: questo sono io durante la guerra, questo è il mio matrimonio, questo è mio figlio, ecc.: questo è l’Isonzo…, questo è il Serchio… ecc. E, come quell’uomo, ha bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuto.

Finalmente mi avviene in guerra di avere una carta di identità: i segni che mi serviranno a riconoscermi (e proprio nel momento in cui, dopo lungo peripezie vane, il reggimento può balzare in avanti), i segni che mi aiuteranno a riconoscermi da quel momento e di cui in quel momento prendo conoscenza come i miei segni: sono fiumi, sono i fiumi che mi hanno formato. Questa è una poesia che tutti conoscono ormai, è la più celebre delle mie poesie: è la poesia dove so finalmente in modo preciso che sono un lucchese, e che sono anche un uomo sorto ai limiti del deserto e lungo il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi, non avrei avuto parola; e so anche che non ci fosse stato l’Isonzo non avrei avuto parola originale. (Ungaretti commenta Ungaretti, 1963).

Le fasi della vita
In una prima versione di questa poesia, Ungaretti si era limitato ad elencare l’intera serie dei fiumi che in qualche modo egli collegava alla propria vita:

I miei fiumi si mettono in fila
chilometri e chilometri passo a passo
in batter d’occhio millanni
e li riconosco
a uno a uno
come un accorto comandante
quest’è il Nilo
e quest’è l’Arno
quest’è il Naviglio
e quest’è la Sesia
quest’è il Serchio
e quest’è il Po
e quest’è la Senna
e quest’è la mia vita
che in ognuno vi traspare

La poesia, inviata all’amico Papini nel mese di agosto del 1916, è ancora lontana dal risultato finale. È utile osservare come si parta da un elenco ben più consistente e meno rappresentativo della vita di Ungaretti. Il lettore si perde tra i nomi dei fiumi e non ha neanche il tempo di collegarli ad un luogo o ad una fase della vita. Spariranno il Naviglio, simbolo di Milano, la città in cui compose le sue prime poesie, l’Arno, la Sesia (che scende dal Monte Rosa, vicina al fronte francese), il Po, e rimarranno invece i fiumi maggiori, quelli che hanno scandito le singole fasi di una biografia e di una mitologia personale che Ungaretti costruisce attraverso la sua poesia.
A questi fiumi si aggiungerà idealmente il Tevere e quindi Roma, la città dell’età matura, che farà la sua comparsa in una poesia successiva.

L’acqua
In questa poesia possiamo osservare un graduale processo di fusione quasi sacra dell’uomo con la natura, prima attraverso l’antropomorfizzazione degli elementi naturali (l’albero mutilato, l’acqua come un’urna per reliquie), poi attraverso l’effetto dell’acqua sull’uomo, il quale sembra trasformarsi a sua volta in un elemento naturale. L’uomo, levigato come se fosse un sasso, diviene una fibra dell’universo.
Il processo avviene attraverso un rito di purificazione il cui valore sacrale è esplicitato attraverso l’utilizzo di metafore religiose: le reliquie, l’inchino del beduino. L’acqua, simbolo di rinascita fin dai primordi della civiltà umana, ha la virtù di condurre il poeta fuori dal tempo, al di là della contingenza della guerra, in una visione simultanea di tutto il passato rispecchiato nel fiume.
È particolarmente significativo il fatto che il poeta sia come un sasso nel fiume. Il fiume, infatti, che è fin dall’antichità anche il simbolo dello scorrere del tempo, anziché portar via con sé l’uomo contribuisce a bloccarlo in una fissità fuori dalla storia. L’uomo è colpito dal tempo (levigato), ma non ne viene travolto.

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