Ricordi di Alzheimer

Nel 2016, in un libro intitolato Cambio verso. La poesia che ci serve a sopportare l’Italia (Effequ), avevo iniziato a ragionare di demenza senile e degli effetti del morbo di Alzheimer a partire da alcune poesie di Alberto Bertoni e di Roberta Dapunt. È per me ancora valido quel che scrivevo, e sempre più attuale. Riporto di seguito il capitolo dedicato a una poesia di Bertoni.

L’Italia, un piccolo paese abitato da circa sessanta milioni di persone, è popolato da una quantità impressionante di vecchi. Nel 2011 gli ultraottantenni erano il 5,3% della popolazione complessiva, e gli statistici prevedono che nel 2051, a duecento anni dall’Unità d’Italia, saranno pressoché raddoppiati: 8,5 milioni, per una proporzione di quasi il 14% sul totale. 

Aumenta la speranza di vita alla nascita. Si prevede che un neonato del 2013 possa mediamente arrivare a 79,8 anni, una neonata a 84,6 anni. E con l’aumento della speranza di vita, cresce l’indice di vecchiaia della popolazione, il rapporto tra la popolazione di 65 anni e oltre e quella con meno di 15 anni. In Italia, che in questo senso è uno dei paesi più vecchi al mondo, raggiunge il valore di 151,4 per cento. Significa che, nel 2013, ogni 100 bambini e ragazzi fino a 15 anni si contano 151,4 anziani di oltre 65 anni. La media europea è di 116,6.

Io, al momento in cui scrivo, ho 46 anni. I miei genitori hanno 76 e 77 anni, i miei figli 12 e 16. Mio padre, settantaseienne, sostiene che l’età più rischiosa sia tra i 70 e i 75. Una volta varcata questa soglia, diventa più difficile morire. Poi, superati gli ottanta, è la vita a farsi decisamente più complicata. I “grandi anziani” (così gli statistici chiamano gli ultraottantenni) sono i più colpiti dai problemi di salute, e la loro situazione economica è difficile, specialmente se vivono da soli. Cosa che capita soprattutto alle donne, più longeve degli uomini.

E le donne, anche per questo, sono più soggette a contrarre il morbo di Alzheimer, una delle più diffuse forme di demenza senile. 

Se hai superato il cancro, se il tuo cuore resiste ai pericoli dell’infarto, allora sei un buon candidato o candidata per l’Alzheimer, condannato a perdere gradualmente la memoria a breve termine e l’uso di alcune parole quotidiane, poi a dimenticare l’identità di parenti e amici, che divengono così dei fantasmi che popolano un ambiente sconosciuto. Nell’ultimo stadio, si legge nell’enciclopedia Treccani “il paziente non riconosce più nessuno, non comprende le parole e ha difficoltà a vestirsi, a mangiare e deglutire nonché a controllare la minzione e la defecazione”.

Alberto Bertoni tra il 1997 e il 2007 ha scritto una serie di poesie pubblicate nel libro Ricordi di Alzheimer. Sono poesie dure, oneste, perché, sostiene il suo autore, “la poesia è l’unico luogo nel quale non ho mai mentito”, e perché “è noto che l’Alzheimer tende a distruggere la vita non solo dei pazienti ma anche dei loro familiari”. Questa è la mia preferita. 

Sbucando dal suo male
si affaccia ogni tanto mio padre
dove dormo

Un passo ed è qui
vicino al letto
ne riconosco l’odore
i gesti non a fuoco

Si piega sul mio sogno
in un sussurro vuol essere sicuro
che l’accompagno io, fra poco

– Il vicino, mio cugino, un amico
appena gli chiedo chi sono

Quattro brevi strofe di versi brevi irregolari, punteggiatura ridotta al minimo, ogni strofa una scena, una sola rima, “fuoco” e “poco”, come per ricordare al lettore che esiste un legame con la tradizione poetica. E poi ci sono le parole forti, quelle più significative, posizionate alla fine del verso, ben visibili, in evidenza. Sono la spina dorsale della poesia:

male

padre

dormo

qui

letto

odore 

fuoco

sogno

sicuro

poco

amico 

sono.

All’inizio un verso quasi di speranza: “Sbucando dal suo male / si affaccia…”. Pare che esca dalla malattia, che per un momento ne sia fuori. E così il padre si avvicina al figlio, il figlio, che dorme, ne riconosce l’odore e, aperti gli occhi, “i gesti non a fuoco”, non è chiaro se per la vista ancora offuscata del poeta o per la scompostezza e insicurezza dei movimenti. Poi il padre parla, sussurra qualcosa all’orecchio, chiede di essere accompagnato, non si sa dove. Infine, il figlio, evidentemente incerto sulla condizione mentale del padre, per verificare se davvero sia, in quel momento, fuori dal male, chiede “chi sono?”, ma la risposta è sempre la solita, terribile e confusa: “Il vicino, mio cugino, un amico”. 

Il rovesciamento dell’ordine naturale della frase rende questi ultimi versi particolarmente efficaci. Prima si dà la risposta, poi la domanda: “chi sono”?. 

E il figlio, il poeta, scopre così di non esistere. 

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