Fuori (prose brevi e stravaganti)

Sabato scorso al Museo di storia naturale della Maremma ho pubblicamente conversato con il direttore del museo, Andrea Sforzi, e con lo storico dell’arte Mauro Papa. Tema affrontato: il paesaggio. Tra le altre cose ho letto una breve prosa paesaggistica scritta nel 2005, credo, per un libro fotografico sulla Maremma. Ho ritrovato il file integrale, che ripubblico di seguito. La serie si intitola Fuori.

I.

Stagioni: stazioni del sole, i suoi luoghi di sosta. Sono luce che si allontana, distende le ombre poi si avvicina, scalda, sta a picco sulle cose a scapito dell’ombra.
È il tempo che torna su se stesso, si avvolge e distende a scatti improvvisi – acquazzoni, brinate, il gelo, l’afa, il tepore – si adagia nello spazio e prende possesso dei luoghi e degli uomini, delle percezioni.
Vista e odorato sono i sensi delle stagioni. Si osservano i riflessi del cielo nelle pozzanghere, le striature grigie e, alzando gli occhi, i bagliori all’orizzonte sul fondale nero delle nuvole. Gli azzurri invernali abbagliano. Il sole allora riscalda la pelle e illude, scopre il biancore delle carni, spoglia, ammala. Il tatto si consuma alle intemperie. I pappi degli ontani galleggiano sull’acqua, costellazioni di bianco nella torba del fiume. Più in là, fanno il solletico ai nasi cittadini.
Un udito allenato alla campagna è come un orologio in grado di scandire ogni stagione, ogni singola ora del giorno di ciascuna differente stagione. Il maschio del tarabuso muggisce a primavera, nelle paludi, poi si solleva pesante verso le nuvole all’orizzonte. L’autunno è il pettirosso saettante. All’estate spetta il silenzio dell’ora meridiana, il frinire delle cicale, o, in montagna, le strida del falco alto sullo stormo. La notte l’assiolo traccia col suo singhiozzo il silenzio. Le croci dei germani segnano l’azzurro, il grigio, il rosso, il nero di ogni cielo. La sera riluce nella coda di un jet.

II.

Sono labili i confini del mare. La linea frastagliata che disegna la costa conosce infinite mutazioni, lente, graduali. Non lasciano traccia nei ricordi, nei racconti. La terra ha migliore memoria e conserva i segni del cambiamento: le città etrusche e romane coi loro porti interrati, le torri marittime a due tre chilometri dalla costa, laghi prosciugati, fiumi che sfociano al mare.
Più stabili le isole – rocce piantate in mezzo al mare – simulano l’immobilità apparente delle stelle e dei pianeti.
Da questi poco frequentati margini è penetrato, nel corso dei secoli, uno sguardo straniero capace di scalfire l’inospitalità delle paludi, dei boschi, delle macchie. Uno sguardo saraceno, arabo, africano. Uno sguardo spagnolo, che ha saputo voltare le spalle alla terra e osservare l’orizzonte, dall’altra parte del Mediterraneo, verso casa, alla conquista di architetture di case e parole, abitudini e vizi, gli odori, le ragioni di una vita davanti al mare, distanti dai contadini e dai pastori.
Anche il vino qui, come il cibo, è una figura dell’ospitalità, un movimento di avvicinamento all’altro, allo straniero, l’ospite. Il benvenuto. E il mare aperto è uno spazio da esplorare, una risorsa da sfruttare, oltre le pendici selvagge delle isole e del monte Argentario.
Le antiche saline hanno lasciato il posto alle vasche per gli allevamenti di pesce, agli stabilimenti balneari. Rimangono i moli, i pontili, gli attracchi, le reti stese al sole ad asciugare, i cantieri navali. I mercati odorosi del pesce resistono all’invadenza degli impianti di surgelamento, inodori e inservibili al turismo enogastronomico.

III.

Dove c’è una pianura, una volta c’era una palude, una maremma. La pianura è la povertà, la malaria, lo spopolamento, poi il riscatto, la bonifica, la conquista della terra. Gli acquitrini sono il ricordo salmastro di un passato di malattia e abbandono. Il presente è il tessuto variegato dei campi coltivati, le toppe di grano, granturco, girasoli, i filari dei frutteti, i giardini sparsi delle ville, i poderi dell’Ente Maremma, le cantine sociali, gli oleifici, i silos e le stalle. L’ontano nero, il sanguinello, il salice rosso costeggiano i canali, le pozze residue, fiumi a regime torrentizio che scorrono al mare: il Pecora, l’Ombrone, il Bruna, l’Albegna.
La striscia costiera è in gran parte sabbiosa, preceduta da dune e, al riparo dai venti marini, da una folta pineta. Al di qua degli ombrelli dei pini è ora l’argilla soda dei campi.
La pianura è la sede cittadina – Grosseto, Follonica, Orbetello – il mercato, le piazze, le istituzioni. Lungo la costa, da una pianura all’altra, fiume dopo fiume, l’Aurelia corre parallela alla ferrovia. Da un mondo a un altro il paesaggio scorre pressoché identico, mentre cambiano gli odori e i suoni, si trascorre da una lingua ad un’altra, verso diverse vocali e consonanti.
Un odore tremendo di pomodori si leva dai campi sotto il sole, dai magazzini.
Intorno alle città, a parziale difesa delle pianure e colline retrostanti, si alternano tratti di costa rocciosa. Marne arenacee e calcari silicei a picco sul mare proteggono le barche dai fortunali, alimentano il turismo e l’abusivismo, crescono alberi duri e saldi, ben piantati a tener ferma con le radici la terra.

IV.

Il lentisco, il mirto, l’erica nel sottobosco. Il bosco: lecci, querce, frassini e ornielli, carpini, aceri, roverelle, ginepri, allori. Questa è la macchia, il forteto passato alla storia, al pari della malaria, come simbolo della maremma, impenetrabile anche al cinghiale. Poi c’è la vigna, l’oliveto, il pascolo, le fitte siepi di rovo, biancospino, olmo, prugnolo e corniolo. Dominano i verdi e i marroni, punteggiati di rossi e gialli autunnali o imbiancati di neve. È quasi scomparso il nero del carbone.
Il seme della continuità ha attecchito sulle colline, pressoché immutate nei secoli. Si distinguono e nominano dalla materia che le costituisce, dalla consistenza della roccia ammantata del verde della macchia. Dal Libero Comune di Massa delle Maremme a Sovana, sulle colline si leggono le tracce della civiltà medievale. Al riparo dalla malaria, gli uomini erano pronti a sfruttare la posizione dominante, a protezione di un confine, lungo le principali vie di comunicazione, capaci di beneficiare delle risorse naturali: i metalli del sottosuolo, la fauna, i terreni fertili, i legnami dei boschi.
Le colline metallifere – a tratti impervie e alte come montagne – si estendono da nord verso sud-ovest fino a penetrare in mezzo al mare. Una lunga striscia sempreverde interrotta dalle cesse antiincendio, dal morso degli scavi, dal metallo luccicante dei pozzi minerari, dalle colline artificiali dei detriti ferrosi, mucchi di giallo e di rosso striati e velenosi. Dall’Amiata scende la dorsale dell’Uccellina. A sud-est i tufi s’incuneano nel Lazio, lungo la valle del Fiora. Il viaggio è accompagnato da odori di mosto, di sansa, di caglio. L’argento luccicante del caseificio riflette il viso del pastore, la camicia a quadri odorosa.

V.

La faggeta in inverno slancia il bruno dei tronchi sul bianco della neve verso il cielo. Dal leccio al castagno fino al faggio. Salendo anche gli alberi sembrano aspirare a una maggiore altezza. Le strade salgono a spirale, si arrampicano gli uomini attraverso le valli. La montagna è vertice, fonte di ogni ascesa e discesa, innalzamento e sprofondamento. È lo spirito, l’interiorità che si oppone alla superficie, cerca di sconfiggerla immergendosi negli abissi della storia, della personalità, della psiche. È il vulcano che spara i suoi detriti fumanti verso il cielo, in attesa della ricaduta. È l’acqua che scende a sbalzi verso le colline e poi in pianura, dalla terra agli uomini, fonte della vita, sorgente, risorsa. È il fuoco rituale che lambisce il nero della notte con le sue lingue rosse e blu, saettanti e strepitanti.
Il solco della valle accoglie il seme di ogni piangere, ogni gioire. Il suono attutito dell’inverno cova paziente, accoglie e riscalda, cresce uomini e paesi come greggi assembrate sul foraggio. Qui si cambiava la malaria col lavoro, l’afa malata con un fresco di fatica e lavoro.
La montagna è un cuneo nel cuore della terra. Il cielo la tocca incorniciandola di azzurri o di grigi, oppure la copre, escludendola allo sguardo bisognoso di orizzonti.

VI.

I crateri lunari sono il riflesso dei nostri continenti alla deriva. La terra si specchia nei riverberi notturni del sole, prende luce, si espone ai raggi lunari. Le ombre tenui – nettissime sotto il plenilunio – stagliano le cose dal buio, come rumori improvvisi che escono dal silenzio. Il canto notturno dell’assiolo, il tonfo della rana nell’acqua ferma del canale, lo schianto della pigna nel fuoco.
Il buio e il silenzio sono le virtù di una notte non ancora lacerata. Il barbaglio dei fanali, il riverbero cittadino, il rombo delle strade trafficate attenuano ogni singola vibrazione. Costringono al colpo di clacson, allo sportello sbattuto. Confondono la notte con il chiasso continuo del giorno.
La notte è differente. La notte è la piccola serie di sbalzi, di dislivelli minimi tra distinti suoni, odori, visioni. È la possibilità di riconoscere perfino l’invisibile, l’inudibile, l’intoccabile. È l’occasione per ascoltarsi, mentre la luce lunare taglia radente le cannucce sui bordi del torrente, i cespugli bassi sui sassi delle Trasubbie, e un usignolo spacca il nero retrostante.

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