Elisa Biagini e Filippo Gatti: un dialogo sulla poesia e sulla canzone

Sono trascorsi quasi dieci anni dalla realizzazione di questo dialogo tra Elisa Biagini e Filippo Gatti, che ripubblico di seguito. In coda a un lungo lavoro di produzione, culminato con la pubblicazione di Intreccio di ciglia, un album di canzoni e poesie scritte da Elisa Biagini e musicate da Filippo Gatti, è nato un dialogo che rende conto della genesi del progetto, del suo significato e della situazione della cultura musicale e poetica contemporanea. Il testo che segue è uscito a mia cura sulla rivista «Per leggere», n. 24, primavera 2013.

Un album di canzoni

FILIPPO Per scrivere questo album sono partito dalla lettura del libro. A una prima lettura, sono rimasto molti impressionato da Acqua smossa:

Volto la testa da te
verso un altro mare,
lascio tracce di parole
scie dei nostri ricordi:
il cappotto mi tiene la forma
sennò sarei neve al sole.

E come acqua smossa
nella mia testa
con ogni tua parola
mi fai cerchi nel lago del cuore.

Ho preso la chitarra, lo strumento per me più istintivo, con cui ho più confidenza e ho scritto il pezzo per chitarra e voce. In sintesi, fin dal principio ho agito molto istintivamente a partire dal testo. Poi ho mantenuto questo modo di lavorare per il resto dell’album. Quando è venuto il momento opportuno ho letto la seconda poesia, nel rispetto della disposizione dei pezzi nel libro, e ho ripetuto l’operazione. Nel caso della terza poesia è stato fatto un lavoro comune con Elisa Biagini. È proprio la poesia-canzone che dà il titolo all’album, Intreccio di ciglia. In questo caso sono partito da un archetipo: la canzone napoletana. Ho preso le mosse da alcuni accordi classici che ho poi variato. Fino alla sesta poesia ho replicato questo metodo di lavoro, registrando i pezzi sul cellulare, in forma di appunto. Da quel punto in avanti sarebbe stato troppo difficile fare delle canzoni. Il linguaggio si fa più complesso, era necessario dare una svolta anche all’album. Quindi è nata l’idea di introdurre la voce di Elisa. A questo punto è di nuovo intervenuta l’autrice per scegliere i pezzi e per ridefinire una scaletta.

ELISA E per decidere di introdurre una nuova poesia, che non si trovava nel libro e che ha dunque contribuito a dare una fisionomia nuova a questa produzione, che a tutti gli effetti vuole essere un album.

FILIPPO Un album di dieci brani di cui sei sono canzoni e quattro composizioni di musica e testo. Anzi, per l’esattezza, due composizioni di musica e testo, un pezzo musicale (musica senza testo) e un pezzo vocale (testo senza musica). Le canzoni tentano vari linguaggi musicali. Ferma restando la relazione tra testo e suono, si sperimentano varie soluzioni: il rock, la musica etnica, la canzone napoletana, l’improvvisazione eccetera.

ELISA È un disco enciclopedico. E vuole essere anche un progetto volutamente pop, fatto per arrivare a un pubblico diverso da quello della poesia.

FILIPPO Sì, ritengo fondamentale mantenere la centralità dei testi. La musica, che in questo caso è venuta dopo la lettura, deve rendere profonda la comprensione del testo. D’altronde si tratta di un modo di scrivere e di concepire il rapporto tra musica e testo più tipici della tradizione italiana.

ELISA A questo punto è bene ricordare che il progetto dell’album si basa su un libro preesistente. È un volumetto di trenta pagine, intitolato Fiato. Parole per musica, pubblicato da Edizioni d’If nel 2006. Il libro è nato con l’obiettivo di sperimentare nuove forme di scrittura e indagare le potenzialità della canzone, con la consapevolezza che si tratta di un’arte che ha le sue regole e che, quindi, richiede l’umiltà di rimettersi in discussione. Sono partita da due poesie di Uova, un mio libro precedente, e le ho ‘stese’, come si fa con la pasta della pizza. Ho conservato le mie immagini, le mie metafore, i miei temi, che sono stati rimessi in gioco per tentare qualcosa di nuovo. Volevo scrivere delle storie che potessero essere messe in musica. Ne sono risultate delle ballate che vertono su temi tradizionali: amore o solitudine. I modelli sono soprattutto Fabrizio De André e Leonard Cohen. La musica dei cantautori italiani e francesi, grazie a mia madre, è stata il sottofondo della mia infanzia. Da adulta poi ho scelto, prima De André e poi Cohen. Due autori sobri, distanti dagli abbandoni liricizzanti tipici di molta canzone.

Storie

ELISA Ho scritto delle storie. Io di solito procedo per frammenti. Qui invece ho abbandonato la frammentazione per privilegiare una certa narratività, che ho maggiormente quando scrivo in inglese perché appartiene di più a quella cultura. Visto che comunque ogni singola canzone, essendo legata alla musica, crea uno spazio, un microcosmo, all’interno di questo spazio ho dovuto creare una storia. C’è dunque un viaggio che avviene all’interno del testo, si procede in una determinata direzione. Inoltre c’è il ritmo, il suono. Ho preferito andare in direzione dell’esplorazione dell’uso della rima, che di solito non uso per privilegiare l’assonanza. Volevo dare risalto alla musica interna al testo. Mi divertiva l’uso del ritornello. Anche per la ripetitività, l’ossessione che è tipica anche dell’ossessività di tipo amoroso, della sofferenza. Nelle prime quattro, cinque poesie questi sono elementi più evidenti.

FILIPPO Li hai scritti velocemente?

ELISA Non particolarmente. La stesura è durata un anno. Dal novembre 2004 al novembre 2005. Ho poi aggiunto due bonus track, più legati alla scrittura poetica. Come se la poesia fosse un bonus della canzone. Il primo dei bonus voleva essere poi un manifesto dell’intero progetto. Il tema del corpo, dell’intruso, dell’ospite, del respiro… Un’altra chiave di lettura è data dalla dedica: «Ti aspetto / zanzara nel palmo». È una frase ricca di senso, che può essere variamente interpretata e che sintetizza i temi della minaccia e dell’attesa.

FILIPPO Una cosa che mi ha stupito della prima canzone, è che all’interno di una composizione così breve ci fossero tanti modi di descrivere il liquido e il suo spostamento. La buona scrittura di una canzone è una scrittura che permette la ripetizione e il riascolto continuo. La canzone funziona nel riascolto. Mi ha colpito questa scrittura che parte da una prima visione che sembra assolutamente semplice e che, progressivamente, rivela un nuovo livello a ogni riascolto. La mia domanda è: come hai lavorato sulle metafore del liquido della prima canzone? Le hai trovate o le hai cercate?

ELISA La terza strofa era una poesia già scritta in precedenza:

Mi perdo nei liquidi
sgonfiandomi di pianto
bicchiere d’acqua sarò
arriverò dal mare una mattina.

Allora ho detto: tutta la storia deve essere legata alla liquidità. E quindi è arrivata l’immagine del cappotto come neve al sole e tutto il resto di conseguenza. Ho cominciato a costruire ‘sopra e sotto’ la strofa da cui sono partita. Due strofe prima:

Volto la testa da te
verso un altro mare,
lascio tracce di parole
scie dei nostri ricordi:
il cappotto mi tiene la forma
sennò sarei neve al sole.

E come acqua smossa
nella mia testa
con ogni tua parola
mi fai cerchi nel lago del cuore.

E poi la strofa conclusiva:

Bevimi a gocce,
bevimi a sorsi
che io sia in te
in ogni tuo passo.

FILIPPO Mi colpì molto il fatto che questi livelli interni del testo fossero completamente celati. Si tratta di qualcosa di non immediatamente visibile al primo sguardo. Di sicuro, in questi testi, il rapporto tra segreti interni e invisibilità, al primo sguardo, è altissimo.

ELISA Nella seconda poesia invece, Perdersi, arriva il vero e proprio ritornello. Ci sono ancora i liquidi: il sudore soprattutto.

Perdersi,
perderci:
essere il nero inchiostro
che ci scrive.

FILIPPO Una cosa che ho trovato nei testi è proprio l’asciugamento progressivo nelle parole. Il passaggio dall’acqua al sasso. A me è servito da guida per individuare una narrazione nel disco. Ho deciso di passare da un certo pathos iniziale a una certa durezza, freddezza, e quindi rallentamento del tempo e scarnificazione degli elementi musicali nella seconda parte del disco.

ELISA Tra l’altro questo liquido non si asciuga ma si solidifica, si ghiaccia e diventa una superficie pericolosa nella poesia centrale che dà il titolo al libro:

Adesso non c’è luogo dove andare,
non c’è ragione per rimanere:

il tuo fiato
si fa il ghiaccio
su cui cado.

Ho stretto i pugni per trattenere odori,
ho chiuso gli occhi ai frammenti di sonno:

ma è sempre al freddo
del tuo fiato
che io cado.

Ritorni come spugna rilasciata
sputi i semi lontano e stringi i polsi:

il ghiaccio dove cado
è soffiato
dal tuo fiato.

Sono tre finti ritornelli che ribadiscono un fenomeno un po’ dantesco. C’è latente la minaccia che questo ghiaccio si spacchi e, soprattutto, c’è l’idea che il movimento sia impedito. Come nei sogni, in cui tenti di camminare e invece non è possibile muoversi, raggiungere la meta. Attraverso il fiato, il soffio – né parola né dialogo – il ghiaccio si solidifica.

FILIPPO Questa cosa del movimento di liquidi mi è piaciuta subito perché è una buona metafora della relazione uomo-donna. Consente un’analisi quasi scientifica del rapporto amoroso. Inoltre, il rapporto che ci può essere tra lettura e ascolto può essere interpretato allo stesso modo. La parte sonora che bagna la parte asciutta della scrittura. Fare una composizione musicale da un testo è come immergere il testo dentro un liquido.

ELISA Riguardavo l’ultimo testo, L’occhio. Di nuovo tornano le gocce, i cocci e le parole. Sono sempre questi i tre elementi in gioco: il liquido, il frammento, la comunicazione.

L’occhio si è rotto
e mi sono svegliata:

sono scesa nel cuore
per la luce ma era
buio che spande, tubo rotto.

FILIPPO Lì finisci con un sasso e una scintilla: «sasso di luce / che col tuo sasso fa scintilla». Siamo agli antipodi della prima parte della raccolta.

ELISA Si tratta piuttosto di un’apertura. Rispetto a Fiato, dove non si va da nessuna parte perché si continua a cadere e quindi è negata ogni possibilità di movimento, nel testo conclusivo si dice «basta, ora risalgo, incollo l’occhio che si è rotto, torno su, a pelo d’acqua, dove è possibile riprendere fiato». E poi c’è un altro, il cui sasso riesce a fare scintille col mio sasso d’occhio. La raccolta si chiude aprendosi.

Somiglianze

FILIPPO C’è una forte somiglianza tra il lavoro di Elisa e il mio, sia sul piano tematico e emotivo, sia sul piano formale. D’altronde, non sarebbe possibile cantare una cosa che non senti. È una finzione che non dura nel tempo. Questo lavoro si fonda su una consonanza di sensibilità, che mi pare trovi riscontro a livello formale nel nostro modo di scrivere. Io ho riconosciuto in questi testi degli elementi familiari al mio lavoro precedente.
Anche io, ad esempio, in Tutto sta per cambiare avevo fatto un percorso analogo sul rapporto tra parola e musica. Non mi andava di distruggere la forma della canzone, tuttavia trovavo che il rapporto tra testo e musica non fosse adeguato al livello della ricerca poetica e musicale contemporanea e rispetto all’evoluzione compiuta dai cantautori degli anni Sessanta e Settanta. Io ho scelto di portare all’estremo il rapporto mettendo in primo piano il testo rispetto alla musica. Ho costruito un album di canzoni in cui qualsiasi tipo di emozione portato dalla musica arrivava dopo la comprensione del testo. Mentre di solito si preferisce il contrario, facendo sì che la canzone arrivi prima emotivamente con la musica e poi col testo. Nel mio disco, invece, se ti accorgi del testo, poi riesci a comprendere il lavoro sulla composizione musicale rispetto al testo.

La strada è più difficile
La notte fa paura
Tu vedi grandi numeri
Ma io vedo la polvere.

Reduce da questo tipo di esperienza, quando ho letto i testi di Elisa ho pensato che la sua ricerca e la nostra eventuale collaborazione fossero in linea col mio lavoro. Mi trovavo di fronte a dei testi straordinari dal mio punto di vista, e quindi particolarmente interessanti se uno li avesse messi in primo piano e non coperti con la musica… se uno avesse usato la musica per svelarli e non per imburrarli o addolcirli per farli arrivare al pubblico.

ELISA Quando ci siamo conosciuti, Filippo mi ha regalato il suo disco Tutto sta per cambiare, che ho avuto modo di ascoltare molte volte. Io ho sentito una sensibilità comune nel guardare il mondo e questo probabilmente parla di scelte, priorità, curiosità di un certo tipo. Quando ci siamo incontrati io non cominciavo un lavoro dal nulla ma proseguivo un percorso iniziato. Quindi dovevo decidere se affidarmi proprio a lui. Dovevo scegliere se fidarmi di Filippo Gatti, nel rispetto delle sue competenze sulla canzone, sulla costruzione del disco, sull’armonizzazione del rapporto tra le canzoni. Credo, infatti, che il disco, l’album, come il libro di poesie, non sia una somma di testi ma un progetto complesso. Purtroppo capita spesso di ascoltare album che altro non sono che accrocchi di canzoni. Trovo che sia un modo di lavorare disonesto.

Tempo

FILIPPO Questa è un’epoca in cui il senso di fare musica e il senso di fare poesia sono messi in discussione. Effettivamente, con la quantità di musica e di parole prodotte nel mondo in ogni minuto, che senso ha perdere del tempo a fare una buona composizione in forma di canzone o di poesia? Ha senso fare tante composizioni da immettere sul mercato, che seguano quindi le regole del mercato. Per fare questo esistono moltissime persone competenti, che possiedono la professionalità necessaria a creare suoni e parole adeguate. Tutto il resto sembra non avere senso.

ELISA Vedo anche il problema della professionalità. Occorre tener conto dell’‘incultura’ di questo paese, dove tutto ciò che è ‘artistico’ è concepito come un hobby e non come lavoro o professione, con le sue regole. Quest’idea autorizza chiunque a fare qualsiasi cosa. E autorizza i cosiddetti intellettuali a essere dei cialtroni, perché invece di percepire il proprio lavoro come una cosa seria, con tutte le gioie e le fatiche del caso, questi si sentono in grado di poter scrivere su tutto con competenza… Si tratta di un cambiamento di atteggiamento in corso da venti, trent’anni…

FILIPPO È una questione di quantità. Ti faccio un esempio sulla critica. Tu non puoi essere pagato sufficientemente per scrivere un solo articolo che parla di una sola opera. Per vivere del tuo lavoro di critico, devi scrivere cento articoli a settimana che parlano di altrettante opere. Se tu scrivi cento articoli a settimana, non puoi conoscere e analizzare le opere. Ti occupi di ciascun’opera in modo da lasciare il tempo e lo spazio per le altre novantanove. Di conseguenza, le opere che vengono veicolate dalla critica sono opere che possono essere comprese e descritte in questo contesto, da persone che devono giudicare cento opere a settimana. Il resto è fuori dal mondo, quindi dal mercato. Ciò che richiede approfondimento e ricerca anche da parte di chi ascolta si autoesclude.
L’unico senso che trovo in questo lavoro sta nel ribadire che l’attenzione e l’approfondimento necessari alla comprensione del linguaggio – di qualsiasi linguaggio – non sono spariti dalla storia. L’opera che si permette il lusso di esistere pur non essendo omogenea a ciò che viene pubblicato e pubblicizzato in questo momento, ha in qualche modo al suo interno la parte critica, e ha una fondamentale funzione di rialfabetizzazione delle competenze di ascolto.
Facciamo i conti col fatto che in quest’epoca non c’è tempo per la poesia, non c’è tempo per l’ascolto. Né di Filippo Gatti, né di Vivaldi, né di Leonard Cohen. Non c’è tempo per la poesia di Eliot, né per quella di un giovane poeta di Taranto, né per la poesia di Dante.
O accettiamo che non c’è più tempo per questo, oppure lavoriamo per sottolineare che dobbiamo ritrovare il tempo, a partire dalla capacità di ascoltare. È a partire dall’alfabetizzazione dell’ascolto che possiamo ritrovare il tempo.

ELISA Imporsi un rallentamento. Questo dobbiamo fare! E questo avviene ogni volta che scegliamo di aprirci al dialogo con persone che hanno altre competenze, che usano altri linguaggi. Aprirsi all’altra competenza obbliga a rallentare, perché devi occuparti di qualcosa che non conosci. Per creare uno spazio di dialogo dobbiamo rallentare. Prima di tutto dobbiamo farlo noi stessi, perché noi critichiamo questo contesto culturale ma ne siamo parte. Esce un libro e dopo sei mesi cominciano a domandarti: «Quando esce il prossimo libro?». Anche se rifiuti questo tipo di atteggiamento, perché se hai scelto la poesia non è questo che ti interessa, tuttavia lo avverti profondamente. Abbiamo bisogno di tempo per la concentrazione, per scendere in noi stessi, ma poi ci sono le pressioni editoriali, questioni di prestigio, che esulano dalle esigenze della scrittura…

FILIPPO Il recupero del tempo dell’ascolto e della lettura è in controtendenza rispetto a questa accelerazione che stiamo vivendo e che è destinata comunque a scomparire…

ELISA … noi andiamo verso l’estinzione…

FILIPPO No! L’umanità si è sempre mossa per fasi di crescita e decrescita e noi ora ci troviamo in una fase di decrescita sana.

ELISA Sana? Secondo me no. Opinioni.

FILIPPO Una decrescita sana. Certamente. E la cosa che più mi entusiasma di questo lavoro, di Intreccio di ciglia, è che è frutto dell’incontro di due persone che istintivamente si sono entrambe sottratte al meccanismo di accelerazione, mettendo al riparo il loro materiale…
È altrettanto interessante che la questione del recupero del tempo riguarda anche il tema, i contenuti del lavoro: il rapporto interpersonale tra uomo e donna. A questa velocità scomparirà la poesia, la musica, e scompare anche il rapporto.
Quando Elisa scrive «abbandonarsi e scoprire che c’è un mondo intero che devi capire» …

ELISA … che non mi piace un granché come verso…

FILIPPO … e invece centra esattamente il tema e ci ricorda che il tempo che scegliamo di dedicare all’ascolto e alla visione di ciò che abbiamo di fronte è il tempo che dedichiamo all’altro ed è, di conseguenza, il tempo che dedichiamo a noi stessi. Se tu non dedichi quel tempo, quel tempo non c’è, tu non ci sei. Sei sparito.

Musicisti

FILIPPO Per lavorare al disco ho scelto due musicisti con cui collaboro abitualmente: Cristiano De Fabritiis, alias ‘Defa’, batterista e compositore di grande talento che ha lavorato negli ultimi anni nell’ambiente dell’improvvisazione di Roma e di Bologna. L’altro è Francesco Gatti, mio fratello, che non è solo un musicista ma anche un sound designer. È una nuova espressione che descrive quel professionista che si occupa dell’elaborazione del suono al di là del mezzo o strumento utilizzato. Sono due musicisti con cui collaboro stabilmente da dodici anni e con cui continuerò a collaborare. A loro si è aggiunto Renato Ciunfrini, un musicista assolutamente unico, che suona principalmente strumenti a fiato ma che è in grado di suonare qualunque oggetto che gli passi tra le mani. Non è facile inquadrarlo in una corrente. Come il De Fabritiis, anche Ciunfrini viene dall’ambiente romano dell’improvvisazione. Abbiamo approfondito la nostra conoscenza perché parlando, durante il nostro primo incontro, abbiamo scoperto di essere entrambi appassionati dei Quattro quartetti di T.S. Eliot, sui quali abbiamo anche tentato di scrivere una composizione musicale. Non ne abbiamo poi fatto niente, ma da quell’idea e da un paio di sedute di lavoro a Villa Pamphili è nata la nostra collaborazione.

ELISA È una persona molto delicata, un osservatore attento.

FILIPPO Racconto un episodio avvenuto durante una delle performance pubbliche dedicate al progetto, a Cortona. Eravamo seduti in un prato, in un agriturismo. Io e Elisa stavamo parlando animatamente, quando lui si è presentato davanti a noi, ci ha interrotto e ha detto, con grande gentilezza: «Siete ancora immersi nel vostro delirio antropocentrico, oppure avete già notato lui». E ha indicato un albero mastodontico che ci sovrastava e che noi non avevamo neanche notato. Effettivamente, Renato ha svelato la presenza di un essere straordinario proprio accanto a noi.

ELISA È stata una bella esperienza, lì a Cortona. Forse è stata la prima volta che ho incontrato i musicisti. Era una lettura organizzata da Federico Batini dell’associazione Nausika, in un antico edificio nel centro del paese. Abbiamo sperimentato questa particolare forma di performance con musica, canzone e poesia.

FILIPPO Poi abbiamo avuto modo, al Festival di Letteratura di editori indipendenti a Villa Gordiani a Roma, di perfezionare la formula. Ricordo che nella prima parte abbiamo fatto una improvvisazione strumentale sulla lettura di Osso e poi, nella seconda parte della performance, abbiamo eseguito alcuni dei brani del disco facendo prima leggere a Elisa le poesie. Ma si trattava di esperimenti utili soprattutto a conoscersi e a capire meglio come realizzare il prodotto.

ELISA Un modo per conoscerci, per vedere come funzionavamo sul palco…

FILIPPO Ma solo a disco pubblicato sarà possibile pensare davvero a come portarlo sul palco in forma di spettacolo. Con gli stessi musicisti naturalmente.
Queste esperienze, le performance, soprattutto quella romana, sono state fondamentali per la produzione del disco, che ha un disegno molto preciso, netto, che è stato riempito da un colore che definirei impressionistico, ricco di improvvisazioni. Questo è importante per la successiva realizzazione spettacolare dell’opera. È un disco che non va rappresentato così com’è ma che lascia spazio alla ricerca di un rapporto sonoro tra la voce di Elisa e il suono dei musicisti. Sarà quindi possibile eseguire le canzoni, ma anche improvvisare e leggere. La seconda parte del disco vuole proprio essere generativa di un reading musicato basato sulla improvvisazione strumentale e la voce di Elisa.

Voce

ELISA Ho trovato molto interessante l’elemento ‘spettacolare’. Io sono abituata, quando faccio le mie letture, a pensarle come dei piccoli spettacoli. Mi pare doveroso nei confronti di chi viene ad ascoltare. Di solito mi preparo a grandi linee, poi lascio molto al calore che c’è nell’ambiente. Ultimamente uso anche l’elemento visivo. Faccio delle lezioni-presentazioni in cui mostro il rapporto tra le mie poesie e le arti visive, proietto delle immagini… ed è una cosa che funziona con un certo tipo di pubblico. Si tratta quindi di alternare letture, racconto, commento… adeguando di volta in volta il registro della voce. Ormai lo faccio da molti anni e ho conquistato una certa serenità nell’affrontare questo tipo di esperienza. Quando sono entrata in studio di registrazione ho incontrato delle esigenze diverse. E delle regole specifiche.

FILIPPO In questo disco ho chiesto a Elisa di fare tre diverse voci. Una voce che potremmo definire ‘media’, che è stata usata per il brano L’occhio, e che possiamo considerare esemplare di un modo neutro, asciutto di leggere la poesia. Poi le ho chiesto di fare una voce sussurrata per Noise Reduction. E poi una voce che io definirei ‘da strega’ per La schiena.

ELISA Da strega? Alla fine l’hai detto! E dire che prima di leggere i miei testi, se non sbaglio, mi avevi sentito leggere.

FILIPPO È vero. Ci siamo conosciuti a una tua lettura in un teatro a Ostia. Quando sei salita sul palco ho pensato: finalmente una poetessa che non sembra una poetessa! Ritengo fondamentale il rapporto tra il modo di presentarsi e di rappresentare la propria opera e il contenuto dell’opera. E ho subito apprezzato il tuo modo. D’altronde anche un vero cantautore non fa altro che prendersi la responsabilità di rappresentare ogni propria composizione scegliendo il modo più autentico.

ELISA Ritengo sia un discorso principalmente politico. Chi fa certe interpretazioni che alterano il testo, è scorretto nei confronti del testo, che ha una sua autonomia, e verso il quale si deve essere responsabili.

FILIPPO Ma si tratta anche di un fenomeno rivelatore!

ELISA Nel senso che può svelare la fragilità di un testo…

FILIPPO Quando sono venuto a sentire la tua lettura, io ho avuto la certezza che quella scrittura fosse la tua. Cioè che fosse vera. Se avessi sentito recitare quei versi in un altro modo, forse mi sarei ritirato verso il fondo della sala e avrei finto di non essere arrivato in tempo all’appuntamento…

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