La deriva della tracotanza

E altri motivi per cui la bozza delle nuove Indicazioni nazionali è irricevibile

Il 20 marzo si è tenuto all’Università di Siena un incontro dedicato all’esame dei “Materiali per il dibattito pubblico” relativi alle “Indicazioni nazionali 2025 – Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione”. Il documento, anticipato da alcune dichiarazioni e interventi pubblici del ministro, è stato elaborato da una numerosissima commissione coordinata dalla professoressa Loredana Perla, ordinaria dell’Università di Bari, e da qualche giorno è sottoposto al vaglio dell’opinione pubblica. L’incontro, organizzato nell’ambito delle attività del Seminario permanente di didattica della letteratura italiana del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne dell’Università di Siena, si è avvalso del parere esperto di Antonio Vigilante, pedagogista e insegnante attualmente impegnato come tutor coordinatore nei percorsi abilitanti dell’ateneo senese, e ha coinvolto una settantina di insegnanti. Queste riflessioni, nate proprio in seguito all’incontro, sono il primo passo verso l’elaborazione di un più ampio documento condiviso, che richiederà più tempo, altri incontri e il coinvolgimento di altre persone esperte.

Un primo sguardo

Per quanto le nuoveIndicazioni nazionali 2025 adottino fin dal sommario una titolazione analoga a quella della norma attualmente in vigore, già dal primo sguardo si possono notare alcune differenze macroscopiche. Queste interessano la quantità di parole usate – grosso modo il nuovo documento raddoppia il numero di pagine –, le premesse con cui viene motivata l’esigenza di rinnovare le Indicazioni, e la struttura del testo, che prima evidenzia una netta separazione tra i campi d’esperienza della scuola dell’infanzia e “Le discipline”, e poi, in seguito, divide le discipline di area umanistica (Italiano, Latino, Inglese e seconda lingua comunitaria, Storia e Geografia) da quelle tecnico-scientifiche (Matematica, Tecnologia e Scienze), accorpate sotto l’etichetta “Istruzione Integrata STEM”, cui seguono Musica, Strumento musicale (per i percorsi a indirizzo musicale), Arte e immagine. Colpisce inoltre, ancor prima di avviare una lettura analitica, la separazione della disciplina “Italiano” in due ulteriori discipline, “Lingua” e “Letteratura”, che già dalla scuola primaria presentano diversi risultati e obiettivi specifici di apprendimento.

Lo scenario

Le Indicazioni nazionali attualmente in vigore, scritte da un’apposita Commissione Nazionale e approvate dal Parlamento nel 2012, si aprono con un paragrafo intitolato La scuola nel nuovo scenario, in cui vengono descritte le sfide della scuola in una società in cambiamento. La scuola, in estrema sintesi, dovrebbe aiutare gli studenti a dare senso alle esperienze, promuovere l’interazione e fornire strumenti per sviluppare un’identità consapevole. La dimensione interculturale è ritenuta cruciale, e viene data grande importanza al compito di formare persone capaci di affrontare l’incertezza. Non è banale che un documento importante come questo, in cui vengono tra l’altro individuati il profilo in uscita dello e della studente e i traguardi di competenza da raggiungere alla fine di diversi gradi scolastici, si apra con una descrizione dell’idea di società su cui fondare ogni successiva considerazione. 

Nel 2017, a cinque anni dalla prima stesura, la norma è stata sottoposta a un processo di revisione, che ha condotto alla pubblicazione di un documento intitolato Indicazioni nazionali e nuovi scenari, in cui viene richiamata l’esigenza di un “maggiore impegno per la sostenibilità, la cittadinanza europea e globale, la coesione sociale”. A questo scopo, sostiene la Commissione, è fondamentale l’esercizio della cittadinanza attiva, che necessita di strumenti culturali e di sicure abilità e competenze di base, cui devono concorrere tutte le discipline. Senza che vi sia bisogno di modificare o integrare il documento del 2012, il nuovo testo si limita a ribadire l’esigenza di applicare la norma e di impegnare ogni scuola autonoma nella costruzione di un curricolo di istituto in grado di garantire l’integrazione delle discipline e, nello specifico, “una nuova alleanza fra scienze, storia, discipline umanistiche, arti e tecnologia, in grado di delineare la prospettiva di un nuovo umanesimo”. 

Il documento del 2025 – che arriva in seguito a un periodo di grandi rivolgimenti sociali, politici e culturali, e dopo la pandemia da Covid-19 – si apre con una premessa pedagogica che rivela l’intenzione di far discendere tutta la successiva argomentazione da alcuni principi di una certa corrente della filosofia dell’educazione e non, come eravamo abituati dai precedenti documenti ministeriali, da una qualsiasi rappresentazione dello scenario contemporaneo. Il testo, maturato al di fuori del Ministero dell’Istruzione, sembra governato da quelle logiche accademiche secondo cui è importante affermare, attraverso la scrittura, la superiorità del gruppo egemone, in questo caso rappresentato dalla corrente dei cosiddetti “personalisti”. Dalle teorie personaliste, quindi, vengono ricavati alcuni principi fondamentali, che a loro volta sono usati per giustificare la stesura delle Indicazioni, che sembrano trovare la loro motivazione principale – intento inedito e quantomeno fuori luogo in un documento del genere – nell’esigenza di imporre a tutta la popolazione un unico e specifico punto di vista sul mondo, rielaborato a partire dal pensiero del filosofo francese Emmanuel Mounier (1905-1950), citato in nota a p. 8. 

I principali argomenti trattati nelle pagine introduttive derivano dunque non dalla conoscenza dei bisogni di insegnanti e studenti, né dall’analisi e dall’interpretazione del contesto sociale, ma dalla voce Personalismo di un qualsiasi dizionario di filosofia dell’educazione: il concetto di persona, il rapporto tra “allievo” e “Maestro” (rigorosamente maschile e maiuscolo), l’idea di libertà come oggetto dell’educazione, il cui sviluppo, secondo quanto si legge a pagina 10, avviene attraverso un “lungo allenamento all’autogoverno” garantito negli anni di frequenza scolastica, e in virtù delle ‘regole’ (“regole di comportamento, ma anche regole tratte dai contenuti e dai metodi delle stesse discipline, come, p.e., le regole di grammatica”). È da passi come questo che, in assenza di dichiarazioni esplicite, è possibile tuttavia desumere l’idea di società che è alle fondamenta di queste Indicazioni, lo “scenario” implicito su cui si possono e devono leggere i diversi medaglioni che compongono un documento che altrimenti apparirebbe frammentario e disomogeneo. 

Secondo chi ha firmato e avallato questo documento, la libertà non sarebbe la “capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza costrizioni o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo autonomamente i fini e i mezzi atti a conseguirli” (Dizionario di Filosofia Treccani), quanto semmai un “bene inestimabile” (Indicazioni nazionali 2025, p. 10) che deve essere appreso e sviluppato attraverso la scuola, interiorizzando “il senso del limite”. Anziché dare o cedere potere alle e agli studenti come persone (definiti con insistenza “allievi” o anche “apprendenti”), la scuola si pone l’obiettivo esplicito di limitare le possibilità di azione (“L’educazione alla libertà, infatti, non è sviluppo dello studente nella libertà, ma sviluppo della libertà nello studente”, p. 10). Si tratta di un concetto che troverà applicazione soprattutto nei metodi di insegnamento suggeriti per le discipline umanistiche, che a differenza delle cosiddette discipline STEM non devono essere insegnate con un approccio interdisciplinare, laboratoriale e induttivo (ivi, p. 87), ma devono contribuire da una parte alla trasmissione di un patrimonio di regole e di conoscenze, e dall’altra a educare ai buoni sentimenti (“un’educazione del cuore che crei occasioni didattiche di esperienza di sentimenti basilari come la fiducia, l’empatia, la tenerezza, l’incanto, la gentilezza. La letteratura, la musica, le arti, la scrittura autobiografica, il cinema, il teatro sono i grandi ‘alleati’ degli insegnanti per questo lavoro didattico…”, ivi, p. 11).

Per capire qual è effettivamente lo scenario in cui la scuola è chiamata a educare e qual è l’idea di società che guida le intenzioni della nuova commissione nazionale, è possibile recuperare alcuni passi particolarmente significativi, in cui si fa riferimento, sia pure di sfuggita, a un mondo “in profondo mutamento”, “gravato da insicurezze e sospettosità che lambiscono i rapporti sociali e rendono complicata la comunicazione” (ibidem), e affetto da “quella triste patologia che è la violenza di genere” (ibidem), che con un colpo di teatro viene depenalizzata e ridotta a un problema socio-sanitario. È un mondo vagamente minaccioso, appena evocato, e caratterizzato tra l’altro – ed è uno dei pochi riferimenti a uno dei principali problemi a cui deve rispondere la scuola contemporanea di tutto il mondo – dalla povertà educativa. Secondo l’Istat, la povertà educativa è “un fenomeno multidimensionale frutto del contesto familiare, economico e sociale in cui i bambini e i ragazzi vivono”, e si misura a partire un complesso quadro di indicatori: il contesto familiare (status socio-occupazionale e socio-culturale, abitazione e beni materiali, relazioni, partecipazione sociale e culturale dei genitori), il contesto scolastico (offerta di servizi educativi, adeguatezza dei servizi educativi, fruizione dei servizi educativi), il contesto territoriale, sociale e culturale (luogo di vita, relazioni, partecipazione sociale e culturale dei bambini e ragazzi), e poi dagli esiti dei percorsi educativi e di istruzione, che possono o meno portare allo sviluppo delle necessarie competenze cognitive e non cognitive. Si legga dunque, a p. 11 delle Indicazioni nazionali 2025, uno dei passi più eloquenti del documento: “interiorizzare il senso del limite aiuta a evitare la deriva della hybris, della tracotanza, spesso diffusa in bambini e adolescenti figli di famiglie con gravi povertà educative, messi al centro di dinamiche affettive iper/ipoprotettive che li rendono ‘piccoli tiranni’ o, all’inverso, fragili prede di dinamismi bullistici”. Le “povertà educative” rappresenterebbero un problema per la scuola perché quelle e quegli studenti che provengono da ambienti deprivati assumerebbero comportamenti disfunzionali o problematici (“piccoli tiranni” o “prede” del bullismo), da contrastare offrendo loro – attraverso le discipline scolastiche – l’occasione di “interiorizzare il senso del limite”. 

L’ultima parte dell’introduzione, in cui sono elencate le “sfide sociali” dell’attualità (“le migrazioni, l’urbanizzazione, il riaccendersi di conflitti nel cuore dell’Europa”) e vengono chiamati in causa l’Intelligenza Artificiale e “il tema delle competenze digitali”, sui cui torneremo a proposito dell’insegnamento dell’Italiano, non introduce elementi di novità. L’immagine dei figli delle povertà educative da educare all’autogoverno e al senso del limite rimane l’emblema più efficace di un documento dal respiro cortissimo e dallo sguardo stretto, che anziché indicare rappresenta, e che sposa la visione del mondo di una corrente della pedagogia contemporanea evidentemente poco interessata a un confronto concreto, continuo, ravvicinato con una realtà sociale che fa paura, e che va “educata” e combattuta attraverso le regole e la disciplina.

L’ossessione identitaria e l’approccio narrativo alla storia

Nelle Indicazioni nazionali 2025 i lemmi “occidentale/i” e “Occidente” ricorrono sedici volte contro una sola occorrenza presente in quelle del 2012, in cui si parlava, a proposito dell’insegnamento storico di “usare il sistema di misura occidentale del tempo”. “Solo l’Occidente conosce la Storia”, si legge invece nell’incipit del paragrafo“Perché studiare la storia” (p. 68): una frase a effetto, un’affermazione apodittica e violenta che è stata già ampiamente commentata e che dovrebbe diventare il punto di partenza per l’insegnante che deve affrontare quelle sfide sociali indicate in apertura dalle Indicazioni, ovvero“le migrazioni, l’urbanizzazione, il riaccendersi di conflitti nel cuore dell’Europa”. 

La Storia, intesa come una dotazione esclusiva della cosiddetta “cultura occidentale” – quella stessa cultura che “è stata in grado di farsi innanzi tutto intellettualmente padrona del mondo, di conoscerlo, di conquistarlo per secoli e di modellarlo” (ibidem, corsivi miei) –, viene dunque presentata a chi insegna come uno strumento concettuale fondamentale per mantenere un’egemonia culturale nei confronti del resto del mondo, come anche per costruire la “consapevolezza del bene e del male” (ivi, p. 69). Da questa visione etica e etnocentrica del sapere storico discendono le finalità attribuite al suo insegnamento e i relativi suggerimenti didattici. Nella scuola primaria, si legge a p. 70, “sembra poi necessario che l’insegnamento abbia al centro la dimensione nazionale italiana, sia al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino, sia – vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – al fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere”. Lo studio della storia patria, dunque, assume una decisa connotazione identitaria, funzionale all’assimilazione delle persone straniere e strumentale – contro qualsiasi approccio interculturale – allo sviluppo del senso di appartenenza alla nazione, e conditio sine qua non all’assimilazione delle persone con origini non italiane, soprattutto se provenienti da paesi che non conoscono la storia. Per questo le Indicazioni nazionali 2025 si premurano di valorizzare lo storytelling, ovvero la narrazione della storia in quanto fascinazione (“La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento”, ibidem), rigettando decisamente i metodi attivi, lo studio delle fonti e persino l’idea che le persone possano sviluppare la capacità critica durante la scuola del primo ciclo. Vale la pena leggere per intero le indicazioni di metodo:

Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. 

Senza entrare ulteriormente nel merito (per un approfondimento si può rinviare a un articolo di Luigi Cajani su «Historia Ludens»), ci basti evidenziare la funzione identitaria attribuita alla  storia come raccontino, come mito fondativo, e in quanto emblema dell’egemonia culturale occidentale. Quella che tracima da queste righe è una visione della cultura che non rimane confinata alla didattica della storia ma che si riverbera su tutte le discipline umanistiche, parimenti convocate a inventare l’identità delle nuove cittadine e dei nuovi cittadini attraverso la narrazione di storie che testimoniano l’esistenza e la superiorità di una nazione e della sua cultura. 

Lingua e Letteratura 

Mai prima d’ora, nella storia dei programmi delle scuole elementari e medie (1963, 1979, 1985) e poi delle indicazioni per la scuola primaria e secondaria di primo grado (2003, 2007, 2012), era stata data tanta importanza all’insegnamento letterario, al punto da pensare di suddividere la disciplina “Italiano”, fin qui sempre tratta in modo unitario, in due sottodiscipline, “Lingua” e “Letteratura” appunto, affidate in queste Indicazioni a due diversi esperti, un professore universitario emerito di storia della lingua italiana e uno di letteratura italiana.

Quella tra lingua e letteratura è una dicotomia che ha una storia lunga, almeno in ambito universitario e nella scuola secondaria, e che ha la particolare caratteristica, in questo specifico contesto, di limitare enormemente il campo d’azione sia dell’educazione linguistica sia di quella letteraria, contribuendo a focalizzare tutta l’attenzione sulla scrittura e sulla lettura, a discapito dell’oralità, della comunicazione interpersonale e, ovviamente, dell’intero universo digitale, completamente estromesso dall’area umanistica. La lingua viene presentata come “il primo strumento di comunicazione e di accesso alla conoscenza”, e nella sua forma scritta “rappresenta un mezzo decisivo per l’esplorazione del mondo, per l’organizzazione del pensiero e per la riflessione sull’esperienza e sul sapere tramandato di generazione in generazione” (Linee guida 2025, p. 36). Compito della scuola è “valorizzare questo patrimonio, trasmettendo nelle forme riconosciute come legittime dalla comunità colta”. La lingua, in sintesi, è presentata come un oggetto culturale dotato di una sua tradizione e di una sua legittimità, la quale viene conferita da una presunta “comunità colta” che si immagina implicitamente nazionale e rigidamente italofona. Coerentemente con l’idea di libertà presentata nella premessa – una libertà introiettata attraverso le regole e i vincoli –, qui si presume che la padronanza linguistica non sia una conquista graduale del soggetto che acquisisce potere, ma che sia un bene da tramandare, un dono vincolante, e anche una delle vie d’accesso verso quella stessa “comunità colta” che – in un circolo vizioso autoreferenziale – ha definito le regole e i criteri stessi della legittimità. Si legga ancora a pagina 36, a chiusura del paragrafo sul perché si studia la lingua italiana: “Questa attenzione alla buona comunicazione si trasforma in maniera spontanea in un positivo autocontrollo che perdura per tutta la vita”.
Da quest’idea di lingua non può che derivare un’idea di letteratura confusa, provinciale ed etnocentrica, che corteggiando il buon senso della pedagogia popolare sfocia nel ridicolo della banalizzazione:

Lo scopo dell’insegnamento della letteratura, nel primo ciclo scolastico, è fare in modo che gli studenti prendano gusto alla lettura, e che da ciò che leggono ricavino gli strumenti per capire meglio sé stessi e il mondo. Ciò significa, innanzitutto, che al centro dell’apprendimento devono stare i testi, e sui testi vanno saggiate e affinate le capacità di comprensione e di interpretazione degli studenti. Acquisire familiarità con la letteratura è un aspetto cruciale nella formazione di ogni individuo che voglia definirsi civile: leggere testi che contengono idee intelligenti aiuta chi li legge a diventare intelligente a sua volta […]. 

La letteratura – un oggetto culturale che, dal momento che viene trattato come una disciplina d’insegnamento, avrebbe bisogno di essere definito più chiaramente, ma per questo compito forse servirebbe una persona minimamente esperta di teoria letteraria – è identificata dunque con la lettura. È attraverso la lettura di testi letterari che si può acquisire una qualche “familiarità” con la letteratura: un obiettivo quest’ultimo che viene presentato come il più desiderabile per quegli individui che vogliano definirsi civili. Sia che si faccia riferimento alla condizione sociale, ai modi o al comportamento, sia che si intenda riferirsi al grado di civiltà materiale o spirituale raggiunto, la prospettiva che alla scuola primaria si ricorra alla lettura di testi letterari affinché i bambini e le bambine possano definirsi “civili” è tutt’altro che innocua e innocente, e richiama alla mente processi di acculturazione e di incivilimento di matrice imperialista e patriarcale. D’altronde, poco più avanti si legge che questa formazione a una “cittadinanza matura” può prendere spunto da “testi di varia natura (narrativi, argomentativi, poetici, drammatici) e di varia provenienza, ma è anche chiaro che una parte cospicua delle letture degli studenti dovrà avere per oggetto opere della tradizione culturale italiana” (ivi, p. 37), a ribadire la funzione identitaria degli studi umanistici. 

La lunga serie di testi, generi, autori e autrici buttati là con disinvoltura in elenchi abborracciati e frettolosi (“testi di Saba o Valeri o Gozzano o Govoni o Pascoli o Penna o Lamarque”, “la fiaba il fumetto, il racconto lungo, il romanzo breve o lungo di avventura o di magia”, “la mitologia greca e le saghe nordiche; ma anche, se piacciono, i romanzi cavallereschi medievali e rinascimentali…”, “L’isola del tesoro di Stevenson, i romanzi di Jules Verne, un po’ di buona fantascienza e di buon horror…”), confermano l’impressione di trovarsi di fronte a un testo intenzionalmente superficiale e, vista la sua destinazione e la sua fondamentale funzione sociale e politica, sciatto e trascurato. È difficile rimanere indifferenti, in un paese che ricorre da decenni in modo sistematico allo studio della storia della letteratura italiana e alla lettura di testi letterari fin dalle scuole secondarie di primo grado – testimoniata dalla manualistica scolastica – e che tuttavia presenta altissimi livelli di abbandono scolastico e bassissimi livelli di comprensione della lettura, di fronte all’affermazione che “Imparare a leggere e a interpretare testi letterari anche complessi è del resto il modo migliore per affrontare in modo consapevole i tanti testi non letterari” (ivi, p. 36): un’autentica bufala, uno dei più vieti stereotipi della cultura vetero-umanistica proclamato a gran voce come una verità.

Da queste otto lunghe pagine di consigli paternalistici poco sapientemente mescolati all’enumerazione di competenze attese e di obiettivi specifici di apprendimento, rimane escluso ogni riferimento all’immaginario contemporaneo, alle competenze digitali – che nelle Indicazioni nazionali ancora in vigore occupano un posto importante proprio nell’ambito dell’educazione linguistica – e, in generale, al mondo esterno, a conferma di una visione accademica, astratta e sostanzialmente incompetente dell’insegnamento e dell’apprendimento nella scuola dell’infanzia e del primo ciclo, frutto di un lavoro forse lungo ma condotta da una commissione totalmente digiuna di tutto ciò che la comunità scolastica e la ricerca – italiana e non – hanno indagato e sperimentato negli ultimi venticinque anni.

Indicazioni senza prospettiva

Il documento è grave ma non serio, ed è interessante per chi voglia capire a fondo la situazione (sconfortante) in cui versano la ricerca educativa e gli studi di didattica nel nostro paese, di fatto completamente obliterati dalla commissione. Sciatte, provinciali, arretrate ancor più che conservatrici e permeate di spirito antiscientifico e di antipedagogismo, queste bozze di Indicazioni nazionali 2025 meritano la più viva e partecipe attenzione da parte di tutta la società italiana, perché nonostante la loro sostanziale inutilità sono rappresentative della permeabilità dell’università italiana alle istanze e agli interessi della politica, e forniscono informazioni utili a chi voglia continuare il cammino di democratizzazione iniziato nel 1962 con l’istituzione della scuola media unica e proseguito nel 1977 con l’abolizione delle classi differenziali.

È probabile che a livello scolastico sia percepito, nonostante la lunghezza o forse proprio in virtù della sua scarsa leggibilità, come un documento che semplifica il lavoro di chi insegna e di chi deve organizzare le scuole, fornendo un’ulteriore giustificazione a coloro che fin qui si sono opposti all’applicazione di qualsiasi indicazione nazionale, continuando a fare come si è sempre fatto. Si tratta, in fondo, di un documento impossibile da applicare nella sua parte prescrittiva, perché i traguardi di competenza e gli obiettivi specifici di apprendimento sono confusi, ridondanti, sovrabbondanti e sostanzialmente scritti male. Ma anche questa non è una buona notizia, perché di fatto contribuirà a rendere la scuola ancora meno sensata ed efficace, a discapito di chi la frequenta e di chi deve gestire le conseguenze della sua inefficacia e insensatezza, ma a tutto vantaggio dei detrattori della didattica e dei nemici – sempre più dichiarati e schierati – della scuola democratica.

Se fino a oggi avevamo a disposizione delle Indicazioni nazionali in larga parte disattese – anche perché non sono mai state accompagnate da adeguati finanziamenti, né da interventi di formazione e di accompagnamento all’altezza della situazione – ma dotate di una prospettiva e aperte a una pluralità di modelli didattici e di opzioni educative, domani dovremo sottoporci ai diktat di una norma che si prospetta astratta e asfittica allo stesso tempo, incapace di interpretare la situazione socio-culturale e tuttavia intenzionata a sbarrare la strada a gran parte della tradizione didattica italiana, che fino a questo momento è stata minoritaria, da domani sarà anche oppressa.

Post scriptum

La questione dell’insegnamento del Latino per l’Educazione Linguistica (abbreviato nel documento con l’acronimo LEL) non è di poco conto, ma non vale la pena parlarne se non per sottolinearne l’inappropriatezza. Inserire nel documento che definisce i nuovi traguardi prescrittivi per la scuola dell’obbligo una disciplina che di fatto non esiste, perché non ha un suo spazio nel sistema d’istruzione italiano, è solo un’inopportuna e avventurosa operazione di propaganda politica e, anche, una provocazione che colpisce soprattutto la struttura ministeriale   e tutto l’apparato statale, completamente escluso dalla discussione fino a questo momento e adesso chiamato a risolvere i problemi causati da tanta tracotanza.

Simone Giusti, coordinatore del Seminario permanente di Didattica della letteratura italiana del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Siena (23 marzo 2025).

(Questo testo è stato pubblicato nel volume  Credere Obbedire Insegnare, a cura di Dario Ianes, Erickson, Trento 2025)

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