La scuola democratica non piace a tuttə. C’è chi la disprezza apertamente, chi ci tiene a fare distinguo, chi preferisce far finta di niente. Nel mese di luglio la redazione di «Left» mi ha chiesto di intervenire sull’argomento e io ho scritto questo articolo potete trovare nel numero di agosto.
La scuola, se intesa come istituzione separata dalla società, non ha bisogno della democrazia. Osservato dal punto di vista dell’efficienza e dell’efficacia, ovvero della capacità di utilizzare in modo ottimale le risorse disponibili per raggiungere gli obiettivi formativi previsti, un sistema di istruzione può risultare di buona qualità indipendentemente dal suo grado di democraticità e, soprattutto, dalla sua capacità di realizzare e promuovere i principi della democrazia.
Isolata dal corpo sociale, la scuola può semmai giovarsi di alcuni accorgimenti tipicamente antidemocratici, che potrebbero consentirle di migliorare le prestazioni riducendo i costi.
Selezionare e separare precocemente gli studenti offrendo loro opportunità educative diseguali, escludere studenti e personale scolastico dai processi decisionali, adottare una governance verticale, opaca e autoritaria, sono alcune delle azioni possibili per garantire gli apprendimenti desiderati a un numero limitato di studenti di alcune aree territoriali, le cui prestazioni, qualora venissero misurate con prove standardizzate, andrebbero a compensare i pessimi risultati di gran parte della restante popolazione scolastica. E anche volendo promuovere in queste scuole alcuni tra i più avanzati principi democratici, incentivando per esempio la partecipazione attiva di studenti, famiglie, docenti e personale alle decisioni, oppure valorizzando il dialogo e il confronto come strumenti educativi e preparando ogni studente alla cittadinanza attiva e critica, non si aumenterebbe in modo significativo il coefficiente di democraticità del sistema di istruzione, ma si potrebbe semmai contribuire a renderlo più presentabile.
La democrazia, a scuola, non è necessaria, e anche quando è auspicata e proclamata a gran voce – in una classe, in una scuola, in più scuole contemporaneamente – corre il rischio di apparire come un innocuo imbellettamento di cui ci si può facilmente liberare senza suscitare grande scandalo. Come spiegare altrimenti l’adesione di gran parte del corpo insegnante – una volta dichiaratamente progressista e democratico – ai provvedimenti governativi sul voto in condotta (Legge 150/2024), che rappresentano la scuola come il mero «contesto lavorativo degli insegnanti e del personale scolastico» e tratta gli studenti come potenziali elementi di disturbo, da contenere e controllare attraverso misure punitive? E che dire del cosiddetto “Decreto sicurezza” (DL 48/2025), che inasprisce le sanzioni per chi deturpa o imbratta edifici scolastici o strumenti didattici, e prevede specifiche misure per tutelare il personale scolastico da episodi di violenza e aggressioni, introducendo aggravanti per chi commette reati contro insegnanti, dirigenti scolastici o personale ATA, o del divieto totale di ricorrere ai propri dispositivi digitali tra le mura scolastiche, nonostante l’urgenza di educarsi e educare a un uso consapevole degli stessi? Sarebbe un elemento di disturbo – perché foriero di democraticità, ovvero di equità e inclusione – anche il prolungamento della scuola media unica fino a quindici o a sedici anni di età, in modo da impedire la precoce segregazione degli studenti in scuole considerate più o meno adeguate al loro livello di preparazione, andando così a rafforzare le disuguaglianze sociali di partenza.
Il punto è che la scuola democratica, specialmente se con questa espressione si intende una scuola equa, partecipativa, inclusiva e orientata alla formazione di cittadine e cittadini critici e consapevoli, non è soltanto un lusso che molti pensano di non potersi permettere, è anche un rischio insostenibile, da evitare accuratamente attraverso il progressivo isolamento della scuola dalla comunità. La critica all’autonomia e alle varie forme di rapporto tra scuola e organizzazioni locali non va disgiunta dal crescente desiderio di sorvegliare e punire coloro che vengono confinati tra le mura scolastiche: si tratta di due diverse manifestazioni della stessa volontà di impedire un precoce accesso dei minori alla vita pubblica. Cosa accadrebbe, infatti, se fin dai primi giorni di scuola e per tutto il resto del percorso di istruzione ogni studente prendesse parte attivamente, in quanto detentore di una lingua e di una cultura, alla costruzione di una comunità scolastica continuamente rinnovata, capace di comunicare con le altre comunità in modo da produrre una trasformazione delle stesse? La legittima e opportuna critica al monolinguismo delle scuola italiana pre e antidemocratica, l’invito a rispettare i diritti linguistici di ogni persona e a svilupparne le capacità verbali in stretto rapporto reciproco con un processo di socializzazione che sia altrettanto ricco e articolato, sono solo alcuni dei pilastri di quell’educazione linguistica democratica che oggi è stata spazzata via dalle Indicazioni nazionali della commissione Perla e che per decenni è stata elusa, derisa o ignorata da generazioni di insegnanti, intellettuali e giornalisti di diversa provenienza politica ma accomunati dal disinteresse per l’emancipazione dei minori.
Va riconosciuto che la lunga battaglia a favore dei diritti linguistici sostenuta da Tullio De Mauro e dal Giscel, analoga e parallela a quella combattuta dalle maestre e dai maestri del Movimento di Cooperazione Educativa e dai tanti e dalle tante insegnanti che hanno assimilato la lezione di Bruno Cari, di Mario Lodi e di Gianni Rodari, era ed è ancora necessaria ma non poteva e non può essere sufficiente.
Ecco il nodo centrale, a mio avviso: non basta, infatti, la didattica, per quanto possa essere attiva e inclusiva, a rendere più democratica la scuola, soprattutto se il sistema continua a essere pensato e costruito in modo da separare per gruppi omogenei le persone minorenni, creando classi di serie A e di serie B, scuole di serie A, di serie B, C, D eccetera. La lettura di un recente numero speciale della rivista «Scuola democratica», interamente dedicato alla segregazione scolastica in Italia, non lascia scampo a chi ancora voglia illudersi sul tasso di democraticità del nostro sistema di istruzione.
Si legge, nell’articolo di apertura, firmato da Marta Cordini e Costanzo Ranci, che la segregazione scolastica «contribuisce a creare ambienti sociali separati, che non solo rischiano di non sostenere adeguatamente i più svantaggiati, ma creano distanza sociale tra bambini e ragazzi che proprio nella scuola dovrebbero trovare l’occasione per sviluppare relazioni sociali più ampie di quelle sperimentate attraverso le cerchie familiari o nei contesti territoriali di residenza».
Il fenomeno, che ha radici antiche ma si è straordinariamente aggravato con il rapido aumento della popolazione scolastica di origine straniera, non può essere ignorato da chi voglia anche solo iniziare a parlare di scuola democratica, né può essere affrontato e risolto senza mettere mano a un’insieme di concause che contribuiscono a determinarlo – come, per esempio, la frammentazione delle competenze e l’assenza di una regia territoriale efficace tra le istituzioni scolastiche e gli altri enti, la configurazione dell’autonomia scolastica come una sorta di mercato aperto in cui le scuole agiscono in competizione tra di loro, la precoce canalizzazione degli studenti in percorsi fortemente differenziati in modo da garantire una riproduzione delle diseguaglianze sociali.
Realizzare concretamente una scuola democratica (non la propria scuola, non una sola che aspiri ad essere più democratica delle altre) è un processo che impone di rivedere radicalmente le strutture e il senso stesso del sistema di istruzione: non bastano metodologie didattiche inclusive se il contesto sociale e istituzionale si oppone all’equità e alla partecipazione reale. Un sistema scuola democratico deve essere progettato fin dalle fondamenta per promuovere cambiamento sociale, relazioni interpersonali autentiche e consapevolezza critica dei futuri cittadini e future cittadine.